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Immagine del redattoreAndrea Pozzi

Mi hanno dato del "camaleonte"

Recentemente diverse persone mi hanno fatto notare un lato della mia personalità diciamo eclettica, del mio modo di pormi e persino di vestire, che sembrerebbe essere riconducibile all'idea di camaleonte.

Ritratto fra le accoglienti mura di una stanza emiratina, di ritorno dalla mia avventura in tenda nello Yemen,.


Sono rimasto affascinato da questo accostamento e voglio condividere con voi un interessante articolo di Matteo Astolfi, che ho trovato dopo una ricerca sul web. "Capita spesso che nelle storie venga usata la fenice come metafora del cambiamento e della rinascita personale: giunta alla fine della propria esistenza, essa muore in un turbinio fiammeggiante lasciando nient’altro che cenere, dalla quale risorge come un piccolo pulcino pronto a nuova vita. In tutto questo, con pronta polemica, voglio spezzare una lancia a favore di un altro esempio assai più realistico; un esempio di rinnovamento continuo, momento dopo momento: il camaleonte. Questa piccola bestiola, citata dallo stesso Aristotele nella propria Historia animalium, è un animale estremamente filosofico. La sua esistenza, infatti, pare voler rispondere al celebre interrogativo: è possibile cambiare ed essere contemporaneamente se stessi?

La storia di questa domanda è molto lunga, parte da Parmenide e giunge fino ai giorni nostri con le più recenti teorie pedagogiche e formative; il nostro amico Camaleonte tuttavia, rimanendo fuori dal “coro degli umani” e per semplice statuto di esistenza, risponde “Sì!”.

Noi sappiamo bene quanto i cambiamenti, piccoli e grandi, possano essere traumatici: richiedono quella che noi solitamente definiamo “mentalità flessibile”, capace di adattarsi al contesto e alle persone. Più riusciamo a combattere la cementificazione del nostro pensiero, più riusciamo ad essere, come precisava Bruce Lee, “acqua che si adegua alle cose, che può fluire o spezzare”. Una delle nostre resistenze più frequenti è imposta dalla paura di snaturalizzarci: ognuno di noi teme di perdere letteralmente pezzi di sé, della propria identità, un prezzo che non si è disposti a pagare per adattarsi alle situazioni e alle persone. Le emozioni giocano palesemente un ruolo fondamentale poiché si manifestano a tutti gli effetti come dei pensieri/giudizi che influenzano (o traducono) il Mondo che viviamo: esse sono capaci di rinchiuderci dentro un autarchico immobilismo o di gettarci in un mondo complesso fatto di relazioni e mutamenti. Il nostro camaleontico amico, famoso per le sue tecniche di variazione cromatica e avvezzo tanto quanto noi all’utilizzo dei colori per rappresentare il proprio stato d’animo, ci ricorda quanto sia perfettamente naturale mettersi in gioco: un diritto che Madre Natura ha dato a lui tanto quanto a noi e che non andrebbe mai tradito. Aristotele, in fondo, sbagliava nel definirlo un animale timoroso: è vero, lui non ha certo il dono della parola, ma ha un modo fin troppo chiaro di comunicare e relazionarsi. Già, comunicare: è proprio questo il nostro problema. A volte noi scegliamo di non farlo, anzi, nascondiamo alcune nostre emozioni e giudizi dietro veli di forzata nonchalance un po’ come se volessimo “eliminare alcuni nostri colori”. Domandiamoci un attimo: possiamo davvero farlo? Possiamo diventare invisibili? Senza voler entrare nel merito della psicologia, dovremmo ricordarci semplicemente che evitare un problema significa non affrontarlo. Aspirare a non vivere le emozioni è come cercare di capire quale sia veramente il colore del Camaleonte. Ahimè, non è dato saperlo! Tutto ciò che noi vediamo è il continuo adattamento di questo piccolo animale a ciò che gli sta intorno, grazie alla stimolazione cerebrale dei cromatofori e dell’incidenza dei raggi solari sugli iridofori sottocutanei: cambiamento che, come abbiamo già detto, non è limitato al solo fine della difesa. La cromaticità del camaleonte è rivolta a ciò che viene attenzionato in quel preciso istante, esattamente come noi manifestiamo un flusso costante di emotività che si manifesta come un giudizio (cioè un atto di pensiero) verso il mondo. Noi non siamo una semplice tela bianca dove gettare ogni tanto le nostre secchiate di vernice emotiva: siamo un continuo riflesso del mondo circostante, un filtro emotivo.

Esclusi alcuni casi psicologicamente rilevanti, non possiamo essere privi di emozioni: ricordate che il Camaleonte diventa nero, il “colore che assorbe tutti i colori”, solo con la propria morte. Come lui, accettiamo quindi di essere vivi e “colorati”, impariamo a relazionarci con più naturalezza possibile: ricordiamoci che il mondo dove viviamo non è come la foresta tropicale, dove ogni errore costa caro. Certo, non è facile, ma il guadagno della società civile sta nel fatto che tutto sommato possiamo (e dobbiamo) sbagliare. Al contrario di un piccolo e indifeso animale, infatti, a noi sono concesse numerose possibilità di adattamento senza il rischio di essere mangiati, o essere banditi per sempre dal nostro territorio né tantomeno essere privati del cibo. La Ragionevolezza di cui ci facciamo portatori ci consente di percorrere una strada decisamente più ampia rispetto alla semplice Legge della Giungla. Anche se le relazioni umane possono essere estremamente più complesse, se mai ci arrendessimo all’angoscia e alla nostra temporanea incapacità di metterci in gioco ci priveremmo da soli del nostro autentico benessere, il cibo della nostra mente. Gli uomini camaleontici, quindi, non sono quelli che si adattano solo per paura ma, al contrario, sono piccoli “grandi leoni” che si muovono in una giungla fatta di persone, fatti e avvenimenti che suscitano paura, rabbia, felicità, tristezza, ansia, e quindi si nascondono, litigano, si innamorano e si disperano. Gli uomini camaleontici si guardano perennemente intorno muovendosi tra le foglie con la calma di un guerriero preparato alla battaglia: usano i propri “colori” per ottenere i propri scopi e vivere le proprie esperienze. A volte perdono, a volte vincono, cambiano la propria strada e le proprie strategie. E godono nel saper cambiare e generare se stessi, rimanendo se stessi".


Al di là del fatto dell'identificarsi o meno, trovo questa riflessione molto stimolante per tutti. Quello che mi ha mosso negli ultimi 20 anni è stato l'entusiasmo, la voglia di scoprire ma soprattutto di scoprirmi, il rendermi conto delle mie qualità ma soprattutto delle mie lacune e il volere guardare sempre oltre con l'obiettivo di avvicinarmi a tutto quello che c'era di diverso, ai cambiamenti, che prima mi potevano in qualche modo spaventare ma che ora rappresentano dei piccoli mattoni della casa che sto costruendo. Chi mi conosce sa che mi può trovare in tenda nella taiga siberiana, in estasi davanti a un quadro al Musée d'Orsay, dinnanzi alle fiamme danzanti in una grotta a 5000 metri oppure su un'isola deserta della Polinesia sotto il sole cocente. Al concerto di una grande band metal, a sciare in mezzo ad alberi ghiacciati o su un campo da tennis, a ballare in un locale alla moda di Buenos Aires oppure vestito come un islamico. Con bandana e camicia a quadri nella natura selvaggia piuttosto che con cappotto e cravatta nella quinta strada di New York...oppure ospite in un villaggio fatto di case di paglia. Davanti a un pianoforte, in una periferia malfamata, immerso in una palude o a vedere una partita NBA urlando! Sono sempre io! Si cambia ma si rimane se stessi. È un gioco fatto di equilibrio, conoscenza, curiosità, intraprendenza e gioia. La vita è così bella per non avere il coraggio di conoscere se stessi, sperimentando, abbracciando la diversità ed eliminando i pregiudizi. Sono pronto per il prossimo cambiamento ma con una ormai forte consapevolezza interna! Life is beautiful. Lo so, sono ripetitivo, ma è così! Un abbraccio a tutti, Andrea

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