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Immagine del redattoreAndrea Pozzi

"Un labirinto di anime" - Il racconto

180 km percorsi in kayak fra le paludi di Texas, Louisiana e delta del Mississippi

Lo scorrere del tempo nell’oscurità della palude mi inquieta. Non ci sono suoni e le uniche presenze che avverto sono immobili. Mentre pagaio, la mia torcia da testa sbatte contro una parete di nebbia che mi acceca, opto quindi per una navigazione al buio. Da qualche parte in cielo percepisco la luna, che mi aiuta quel tanto che basta per evitare di scontrarmi contro qualcosa. Sto perforando una superficie leggera e impalpabile, come se mi trovassi immerso in una nuvola. Avanzo a oltranza solo perché mi viene spontaneo farlo, o forse perché fermarmi mi lascerebbe annichilito e il semplice dover far qualcosa tiene la mente occupata. Ho sempre avuto un timore reverenziale nei confronti dell’acqua, che per certi versi mi spaventa più del fuoco per la sua capacità di riempire ogni anfratto. Una minaccia a volte silenziosa, nella quale mi immergerò volontariamente per un indimenticabile capitolo della mia vita. È autunno nelle paludi nell’Atchafalaya Basin. D’accordo con il mio compagno di viaggio ho deciso che partiremo al buio, facendo sì che sia il più impercettibile ostacolo a dettare la rotta. Non sappiamo quando e se torneremo al punto di partenza ma non ce ne curiamo. Confortato dal fatto che il sole dovrà sorgere, inesorabile, tento di cercare riferimenti concreti attorno a me. Immergo la pagaia, che ahimè non tocca il fondo. Mi avvicino a un tronco colossale, ai piedi del quale emergono degli spuntoni che perforano la superficie: eccole, le radici aeree dei cipressi calvi! Sinistre, appaiono come le sbarre di una prigione e mi costringono a deviare.

Nella penombra mi accorgo di essere di fronte ai resti di un mondo dimenticato: severi fusti dominano l’ambiente e mi incutono il timore che proverebbe un cuore solitario dinanzi a un paesaggio antidiluviano. Ci sono piante semi sommerse e spaccate nelle quali a volte rimango incagliato, altre possenti e con braccia divaricate dalle quali penzolano parassiti filamentosi. Dove sono finito? Il pelo dell’acqua separa due mondi diversamente spaventosi: il primo si sta risvegliando con la nascita del nuovo giorno, l’altro rimarrà ignoto ancora per qualche tempo. Vengo poi catturato da una figura dai contorni indefiniti: dev’essere un airone. Sfreccia fra le ombre e sembra quasi che voglia essere seguito, così come il coniglio bianco di Alice. Mi perdo con lui nel fitto della foresta acquatica che stancamente si sta destando.


La punta del kayak sembra scivolare su una lastra di ghiaccio, quando le prime luci vanno a rivelare una nuova stagione della vita: il giorno nasce e io con lui. Mai avevo ammirato niente di simile. Per lunghi istanti, ghermito dalle tenebre, avevo atteso un segnale dalla natura. Improvvisamente mi sembra quasi di avvertire un cigolio, mentre da un remoto scrigno di luce cominciano a filtrare fasci d’oro...

Attraverso quella piccola fessura lontana il giorno andava a perforare l’oscurità, rivelandomi un mondo sconosciuto. Era l’origine del mio viaggio nel tempo in un ambiente soffocante e ostile. Era giunto il momento di abbandonare il mio guscio galleggiante per scendere nelle profondità e conoscere veramente quell’inferno.

Decido allora di lasciare la piccola imbarcazione. In maniera goffa e indecisa mi ritrovo abbracciato al kayak con il rischio di cadere in acqua con l’attrezzatura fotografica. L’eccitazione non aiuta. Immergo il primo piede che non appena tocca il fondale fangoso comincia a cedere facendomi sprofondare, come intrappolato nelle sabbie mobili. Cerco allora un alleato avvicinandomi a un tronco vetusto, mi accosto aiutandomi con la pagaia finché non riesco ad agganciarmi. Ci sono radici aeree nei dintorni, ne metto una nel mirino e lanciando un lazo come un gaucho sudamericano, riesco ad assicurare il kayak. Vederlo scivolare via potrebbe infatti rappresentare una fatalità in queste condizioni. Munito di stivali ascellari mimetici mi sento come un militare prima di una delicata missione, il cipresso calvo accanto un bastione, mio unico riparo e solido riferimento. Immergendomi in questi luoghi sinistri, penso un attimo al perché di tutto questo. Sebbene desideri narrare con la fotografia questi luoghi allucinanti, l’obiettivo di ogni mia avventura è quello di vivere un’esperienza rara, unica, che mi possa far sentire partecipe del luogo che sto esplorando. I piedi sono bloccati nel fango. L’acqua arriva a metà busto, finché non avverto una strana sensazione di sollievo, come se conoscessi da sempre questo habitat. Oggi è stato solo il preludio di un’avventura inimmaginabile.

Pronto per una nuova giornata di esplorazione mi sveglio in piena notte, i kayak sono legati sul cassone del pick-up come di consueto ma con nostro stupore oggi li troviamo ghiacciati. Dobbiamo ricorrere a coltello e accendino per riuscire a districare le corde e la brina ricopre completamente l’involucro. Mi vesto rapidamente a strati per questa gelida giornata nelle cupe acque stagnanti del Texas! Mi piace l’incertezza collegata all’idea di labirinto. Chissà dove mi porteranno le mie braccia e cosa si prova a congelare immersi in mezzo a quegli spettri! Traccio un immaginario percorso fra le ombre, accompagnato per brevi istanti dagli occhi rilucenti di una famiglia di procioni, intenti a sciacquarsi il muso sotto la volta celeste. Non appena credo di aver guadagnato il largo mi accorgo di essere in anticipo e nel buio vengo assalito da un senso di disorientamento, disordine e perdizione momentanea. Mi abbandono sul kayak con la testa buttata all’indietro lasciandomi cullare da un’impercettibile corrente. Mi sembra di trovarmi in un sogno, inglobato in un groviglio di anime intento ad inseguire un richiamo, che come un mantra, mi spinge dove il cielo non è più visibile e dove ogni colore sembra estinguersi. Non esistono ombre o forse è tutta un’ombra quella che sto oltrepassando. Dove sono i suoni? Più avanzo e più il mondo si consuma davanti a me. Le stalattiti vegetali, antiche tracce immobili e apparentemente esangui, come ragnatele abbandonate descrivono l’oppressione del momento.

Ambigue figure sembrano sghignazzare al mio passaggio e l’unica maniera per non farsi cogliere da turbe mentali è quella di diventare come loro.

L’acqua maleodorante della palude mi ghermisce e il fondo melmoso continua a cedere, i piedi sono bloccati e sprofondano lentamente. Non reagisco, ho la sensazione che tutto stia andando finalmente al proprio posto in questo ambiente delirante, mentre dal basso una presenza misteriosa sembra voler soggiogarmi. Comincio poi a dimenticarmi del mio corpo e persino di ciò che mi circonda. Invecchierò qui, aggrappato a questo dolce incubo... Torno alla realtà disturbato da uno scompiglio d’ali. Mi sembra di avvertire sagome di airone moltiplicarsi nel paesaggio per poi smaterializzarsi. Mi rimetto in movimento ignaro che a breve mi sarei imbattuto in un essere che da sempre popola i miei sonni inquieti. La torcia mi aiuta a districarmi in un’area affollata di alberi, finché ecco comparire in sequenza uno, due, tre ragni, che mai avevo visto prima. Penzolano come yo-yo dai rami e solo l’oscurità li può rivelare, lattescenti, quasi argentei e semitrasparenti nella loro apparente paralisi. Ognuno appeso ad un unico filo, si protendono fino al pelo dell’acqua: macchine pazienti e fameliche. Le ragnatele mi appaiono come i fili del burattinaio più tetro che mente possa concepire: il cipresso calvo. Per una spanna non mi trovo un aracnide in fronte e per poco non finisco in acqua, in quell’istintiva deviazione per evitarlo. Anche i tronchi che mi circondano sono chiari e più esili del normale. Assomigliano a femori, tibie o ginocchia e sembrano sul punto di un’orribile metamorfosi. Di giorno in giorno capisco che questo è un ambiente sempre più ostile e pieno di insidie. Come spesso mi accade però, anche quando tutto sembra tramare contro di me, cercando di placarmi e rallentarmi, vengo stupito dalla mia reazione. Ne esco rinforzato.

Abbandono il kayak con poche mosse, questa volta più disinvolte. D’altronde per poter raccontare un albero, devi diventare a tua volta albero. È una mattinata di ghiaccio quella che mi attende, infatti il gelo comincia a mettermi alla prova e in un lampo è come se mi stessi diventando statua. Per via della pressione dell’acqua gli stivali mi schiacciano le cosce, le parti intime e il busto, mi sento come un insaccato sottovuoto. Sono tuttavia partecipe più che mai di questo labirinto della follia, con l’intento di testimoniare un qualcosa di unico. Ho perso il conto dei giorni e ogni giorno perdo quello delle ore, le giornate hanno così senso che sarebbe riduttivo suddividerle in frazioni. Andrò a letto con la testa leggera. Sino ad oggi ho pagaiato a lungo, fendendo le nebbie notturne e sfidando il silenzio della foresta acquatica, con l’intento di poterne conoscere i segreti più occulti. Le lugubri ore trascorse qui dentro si sono accumulate e rappresentano quasi un macigno, che mi porto dietro e che mi indolenzisce le spalle, sempre più stanche ma affamate di scoperta. Mi imbatto in tappeti verdeggianti di piante acquatiche, che inevitabilmente fendo come farebbe un coltello nel burro, senza emettere alcun suono. Il sipario si richiude dietro di me, cancellando ogni evidenza di passaggio. Qui dentro è il fato a guidarmi e non ho modo di orientarmi, anche perché aver lasciato a casa il gps è, come sempre, la scelta più insensata ma allo stesso tempo azzeccata per poter vivere davvero un’esperienza. Sono elettrizzato da tutto questo e con uno stupido senso di onnipotenza mi sento come se fossi diventato “la bussola del mondo”.

Il sole è oggi generoso e le temperature sono più clementi. Gli intrecci di ragnatele che mi

accompagnavano finalmente si sono disgregati, l’orizzonte diviene più chiaro e il territorio improvvisamente amico. Non posso chiedere nulla di più. Un senso di compimento e felicità mi pervade e fotografare diventa superfluo, voglio solo vivere! Questa giornata di gloria volge al termine e nella luce arancione di fine giornata, pagaio con l’intento di guadagnare riva prima di essere inghiottito dal buio. Ho lo sguardo fisso davanti a me, la punta del kayak a fuoco mentre il mondo attorno è appannato, come ad enfatizzare l’esperienza effimera di questi giorni. D’improvviso vedo l’acqua muoversi e nell’immobilità tipica della palude mi chiedo che cosa stia succedendo. Immagino un pesce, una tartaruga o degli insetti, che spesso creano strani decori sul pelo dell’acqua. Quel movimento si trasforma in piccole onde che si spingono proprio nella mia direzione.

“Pffff”, un soffio improvviso viene seguito da un getto di vapore che si leva dalle acque! È un alligatore che si sta avvicinando. Con il rischio di sbilanciarmi cambiando repentinamente direzione, perdo fortunatamente le tracce del rettile ma anche la spensieratezza! Per giorni fra le nostre gambe si aggiravano dunque i “gators”, ragni e serpenti velenosi, oltre a inquietanti ammassi di gelatinosi invertebrati acquatici (phylum Bryozoa), mentre noi cercavamo di ritrarre la sorprendente meraviglia di un mondo vegetale ignoto. Dato il periodo dell’anno non avremmo dovuto avvistare alligatori, poiché per via delle temperature rigide, si trovano in uno stato quasi letargico. La natura però non ha regole ferree. L’improvviso innalzamento delle temperature mi ha concesso un grande privilegio e sono certo che senza questo incontro imprevisto, la mia avventura tra sogno e realtà nelle paludi sarebbe stata incompleta.

Andre


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